Il climate change che stiamo vivendo suggerisce interrogativi profondi a ognuno di noi sul rapporto che abbiamo con la natura e l’ambiente circostante. La risposta a questo processo, che pare inarrestabile, è racchiusa nel macro concetto di sostenibilità ambientale, criterio fondamentale di questa epoca storica, sempre più presente nel quotidiano dei consumatori, delle logiche produttive delle industrie, delle scelte politiche, dell’abitare.
E a proposito di abitare, si sta facendo sempre più strada in architettura una tendenza che parte da lontano e che al centro colloca il rapporto con la natura. Le ansie derivanti da un ambiente sempre più antropizzato e sconvolto dai cambiamenti climatici da un lato, e il ripensamento dei propri spazi domestici dopo la scottante esperienza della pandemia dall’altro, hanno spinto verso una riscoperta della natura, un approccio architettonico che veda l’ambiente non come contorno, ma come parte integrante del progetto.
Questa nuova tendenza ha un nome: biofilia, letteralmente “amore per la vita”, convenzionalmente “amore per la natura”. E come dicevamo parte da lontano. A codificarla per la prima volta fu, nel 1984, lo studioso Edward O. Wilson che la definì così: “L’innata tendenza a concentrare la nostra attenzione sulle forme di vita e su tutto ciò che le ricorda e, in alcune circostanze, ad affiliarvisi emotivamente”. Secondo Wilson, l’uomo ha una atavica empatia verso la natura, un’affinità intrinseca, maturata e sedimentata nei milioni di anni in cui viveva direttamente negli spazi naturali. Una convivenza equilibrata e rispettosa, prima che l’avvento della tecnologia e dell’urbanizzazione ribaltasse questo rapporto. Ma la propensione umana verso la natura resta un fatto istintivo.
Come si declina in architettura il concetto di biofilia? Con approcci progettuali orientati a stimolare questa predisposizione latente delle persone a porsi in sintonia con la natura, con lo scopo di innescare processi virtuosi in grado di aumentare il benessere interiore. La psicologa ambientale Rita Trombin in un’intervista al Corriere Living fissa i punti di partenza: “Serve lavorare su viste, prospettive, materiali, odori, aromi, suoni. In un’ottica multisensoriale che ci permette di connetterci alla natura”. A ispirare forma, orientamento e materiali deve essere innanzitutto il paesaggio circostante. Il progetto deve cucirsi all’ambiente in cui si colloca in maniera quasi simbiotica, per creare una continuità non solo di paesaggio, ma anche geografica, storica e culturale.
L’architettura biofilica predilige innanzitutto l’illuminazione naturale attraverso l’utilizzo di ampie finestre che permettano di affacciarsi sul mondo e sulla natura che ci circonda, unendo l’indoor all’outdoor. Una natura che si riscopre anche nell’uso dei materiali, come il legno, che più di tutti consente di creare una linea di continuità con il paesaggio circostante. Un materiale che ha la grande capacità, col suo odore e le sue texture, di creare un ambiente sempre accogliente e rilassante e di trasmettere vibrazioni positive, esattamente come nel progetto “Casa di campagna” dell’architetto Dario Scanavacca.
La prospettiva biofilica passa anche attraverso l’interior design, con arredi realizzati sempre con materiali di origine naturale e con colori ispirati alle tonalità del paesaggio circostante. Un’architettura viva, che respira, e non a caso di vitale importanza è anche la qualità dell’aria, la ventilazione naturale e il ricorso alle piante – da curare con grande attenzione e non come meri oggetti di arredo -.
Un modo di progettare e di ripensare il vivere quotidiano che al centro pone sempre e comunque il benessere psicofisico della persona, e la creazione di un habitat in grado di far dialogare l’interno con l’esterno, di far riscoprire l’ “amore per la natura”.